Una groupie in Perù- 1 episodio- VERSIONE ITALIANA

Bienvenidos a Lima la horrible
____ TRADUZIONE IT
Una cronaca di Mariangela Rosato, scrittrice e dottoranda in letteratura contemporanea, sulla prima tournée dell’Ensemble Regards in Perù
Quando si va a dormire sapendo che il giorno dopo ti troverai dall’altra parte del mondo, i pensieri sono un po’ confusi. O meglio, più che i pensieri sono i sogni ad essere confusi. Ieri, per esempio – c’erano più di 30 gradi all’ombra a Parigi e, quando fa caldo il sudore ti aspira le idee che ti restano – ho sognato un aereo pieno di gatti miagolanti. Stavano tutti con le cinture attaccate, suonavano violini, flauti, violoncelli, alcuni cantavano pure – ce n’era uno, in particolare, che si era messo ad intonare le arie della Traviata, riuscivo a distinguere solo quella che fa “Amami Alfredo”; “Amami quanto io t’amo”. E davanti ce n’era uno che li guidava tutti quanti: il ciuffo pieno di riccioli neri li copriva una parte dell’occhio e le braccia non faceva altro che muoverle in volo. Poi diceva: un, due, tre; un, due, tre – la voce era così forte che il ciuffo si muoveva da solo: il vento non esisteva più nel mio sogno, era lui che lo creava con i suoi movimenti.
Ed io? Io non ero come uno di quei gatti. Non avevo né i baffi, né le zampette, né uno strumento musicale, neanche uno piccolo-piccolo, di quelli che si possono nascondere tra le mani e che assomigliano ai remi. Nel mio sogno, io, stavo dietro di loro: ricordo solo che avevo degli occhiali enormi e spessi che facevano diventare i gatti, alla vista, più grandi di quanto non lo fossero realmente. Nel mio sogno quei gatti erano irraggiungibili, nel senso che non ci potevi parlare con loro: usavano un’altra lingua e l’unica cosa che potevo fare era guardali suonare i loro strumenti, ascoltarli mentre cantavano, osservare i segni strani che scrivevano sui fogli. Che cosa potevano mai significare quei geroglifici? Chi lo sa. Speravo solo, sempre nel mio sogno, che non fossero i codici di guida dell’areo, altrimenti ci saremmo trovati tutti nei più profondi abissi dell’oceano Pacifico.
Mi sono svegliata con un certo timore di partire e di lasciare la mia casa: non volevo che ci fossero quegli strani gatti a guidare l’areo per Lima. Perciò, quando nella sala d’aspetto dell’aeroporto ho visto tutti i musicisti che sarebbero partiti, ieri, con me, li ho associati subito ai gatti del mio sogno. Gli strumenti non ce li avevano, quindi facevano un po’ meno paura –sembravano degli umani innocui e normali. Alcuni di loro mi hanno raccontato di essere già andati a Lima, altri, invece, di non saper neanche quanti chilometri separano Parigi dal Perù. Più di diecimila km e attenzione che Lima non è come Parigi– io, tutte queste cose, le so, me le ha già raccontate. Lui assomiglia tantissimo al gatto con il ciuffo che stava nel mio sogno, gli manca solo la bacchetta in mano. L’ho nascosta in valigia altrimenti durante il viaggio la punta rischia di andare a finire dritta-dritta nel mio occhio. E poi, a dir il vero – e quando si scrive un po’ di verità c’è sempre, anche se a me piace raccontare facendo in modo che la lettera A corrisponda alla B e la C alla D – voglio approfittare di queste ore di viaggio per stare un po’ con lui a non far niente: è bello non far niente perché ci si annoia, ed è ancora più bello quando lo si fa in due. E poi, so già che da domani me lo porteranno via per un po’, che dovrò vederlo da lontano e che si trasformerà, anche lui con la sua bacchetta in mano, in un gatto irraggiungibile come tutti gli altri.
I viaggi che ti portano dall’altra parte del mondo sono lunghi, anzi lunghissimi – quando arrivi si ha l’impressione di essere andati indietro nel tempo: dodici ore di volo e sette ore indietro di differenza oraria. Ciò vuol dire che, se a casa mia i miei genitori sono in maniche corte, infilzano l’ombrellone nella sabbia e mangiano un panino al tonno sugli scogli – da quella prospettiva è bello il tramonto, il sole si fa risucchiare dal mare in un tempo piccolissimo –, qui sono appena comparse le prime luci del sole. E pensare che a Cristofolo Colombo, mio connazionale, ci sono voluti più di due mesi per arrivare dall’altra parte del mondo con le sue tre caravelle. A noi è bastato un aereo. Il sole qui non si vede mai: Lima è una città che si nasconde tra le nuvole. Poco prima di atterrare escono le montagne che infilzano il cielo, con le loro punte aguzze – è lui che me le indica dall’oblo. Mira, Mira! – mi dice in spagnolo, e io sono contenta perché in spagnolo non ci parla quasi mai con me. Lo fa solo in alcuni momenti: quando perde le difese, si dimentica di che ore sono e di dove siamo, quando ci troviamo con i suoi amici peruviani, la sua famiglia, qui a Lima. A Parigi, dove viviamo, usiamo il francese come lingua di dialogo tra di noi. Il francese è una lingua chiara e diretta, nonostante la sua retoricità. Quello che vuoi dire lo dici, il discorso riesci a riassumerlo in concetti precisi – certo, alle volte ti fa divagare, ma poi ti fa ritornare sempre al punto da dove sei partito: non dimentichi né il principio, né lo sviluppo, né le tue conclusioni. Quando si parla in italiano e in spagnolo, invece, si pensa di più e si fa di meno, almeno così vale per noi. Qué lindo que es! – gli rispondo, anche io voglio dimenticarmi dell’importanza d’essere coincisi nella vita per una volta.
Il Ministerio di Cultura ci accoglie alle nove di mattina, ma la maggior parte di noi è sveglia già dalle sei, soprattutto lui che, come previsto, è stato il primo a trasformarsi in un gatto. Gli altri lo fanno lentamente: i musicisti francesi hanno bisogno di prendere in mano uno strumento, di toccare le corde del violino, gli archi del violoncello per dare vita alla trasformazione. Da quando siamo qui le notizie che vengono dall’Europa e dal mondo non le abbiamo proprio sentite. Chissà cosa farà Trump – si chiedono i gatti: quando parlano di queste cose assumono un atteggiamento serio e mi fanno ricordare che, solo qualche giorno fa, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato dei missili sull’Iran. Se non partiamo? – avevo proposto io, ma lui aveva replicato che l’arte non deve fermarsi e serve proprio in questi momenti a capire che il mondo è fatto anche di cose invisibili come la musica e le parole. Non si possono toccare, ma spalancano porte inzuppate di colore di cui non si riesce a vedere né il sopra, né il sotto. Per fortuna, così almeno si può dire di essere liberi.
Durante le lezioni al Ministero di Cultura i musicisti diventano dei gatti immensi che insegnano a miagolare e a non sbagliare le porte colorate da aprire: è più importante la porta che la chiave perché, se la chiave si dimentica, la puoi richiedere. Se rompi un portone, invece, rimane rotto e, poi, ti tocca ricostruirlo tutto da capo con tanto di calce, pittura e olio di gomito. Gli studenti, se li si guarda da lontano come sto facendo io, sembrano piccoli-piccoli. La loro piccolezza attuale la si percepisce prima di tutto dall’insicurezza con cui prendono in mano lo strumento: c’è uno che assomiglia ad un castoro, si nasconde dietro lo spartito e il flauto lo tocca solo con le punte delle dita. “¡Más fuerza, más fuerza!” – dice uno dei gatti e gli fa vedere come ci si può e ci si deve trasformare quando si suona. Devi diventare un felino – afferma e gli spiega come lui è riuscito a farlo. Quanto invidio la sicurezza di questi musicisti e la capacità di trasformarsi in gatti. E invidio anche lui: lo ascolto da lontano mentre incita i suoi allievi a metterla in pratica la loro metamorfosi, a farsi catapultare in un mondo pieno di magia. Chissà se anche io, dopo questo lungo viaggio, mi trasformerò in un gatto.
*** Questa cronaca è pubblicata sui portali del festival Experimenta, dell’Ensemble Regards, di Radio Filarmonía e del Ministero della Cultura del Perù.